Covid. La vaccinazione, le misure di prevenzione e di gestione dei contagi in farmacia

I dati settimanali dei bollettini ufficiali diffusi da ministero della Salute e Istituto superiore di sanità sui nuovi contagi provocati dal virus Sars-Cov-2 ci restituiscono un quadro di progressivo, sostanziale aumento dei casi lungo lo Stivale. Una situazione che conferma come sia assolutamente necessario non abbassare la guardia su questo tema, puntando principalmente sulla prevenzione. E la farmacia rappresenta il luogo privilegiato dove attuare tutte le misure oggi possibili per evitare il contagio e, se l’infezione dovesse invece verificarsi, scongiurare il rischio di eventuali complicanze: dalla misure di prevenzione, alla vaccinazione, fino alla gestione dei sintomi e all’invio dei pazienti al medico di famiglia, oggi il farmacista è in grado di prendere in carico a tutto tondo i cittadini, soprattutto appartenenti alle categorie fragili, come persone con oltre 65 anni e/o affette da patologie croniche. Naturalmente anche medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, grazie alla presenza capillare sul territorio e alla conoscenza diretta della propria popolazione di assistiti, hanno un ruolo fondamentale nell’ambito dell’identificazione e gestione, secondo le modalità definite a livello regionale e locale, dei pazienti da trattare. Ma la farmacia rimane, chiusa la fase pandemica, il luogo preferito per un primo counselling attivo, dove il cittadino può incontrare a qualsiasi ora del giorno e in qualsiasi luogo del nostro Paese, un professionista sanitario che è in grado di dare i giusti consigli.

“Stiamo vivendo una fase in cui i contagi sono tornati a salire – fa notare Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli Ordini dei farmacisti italiani (Fofi) – anche se è evidente che abbiamo passato quel momento difficile che ricordiamo tutti e che abbiamo potuto gestire grazie alla straordinaria scoperta che è stata il vaccino contro il Covid-19, arrivata in pochi mesi, fatto già di per sé straordinario, che ha garantito un’immunizzazione diffusa. In questa fase di allerta meno acuta, ma comunque presente, dobbiamo concentrarci sulla vaccinazione in primis dei fragili, cioè degli anziani e di chi ha patologie concomitanti, e quindi ragionare per cercare di sensibilizzare al massimo queste categorie. Rispetto alla vaccinazione, oggi il tema è dunque sensibilizzare le categorie fragili, notando bene che nei gruppi da vaccinare dobbiamo includere anche i caregiver, cioè le persone che sono vicine a un paziente fragile, che quindi potrebbero involontariamente portare il virus a casa. E non dimentichiamoci, perché secondo me è molto importante, che anche tutti i sanitari, che sono le persone a cui noi facciamo riferimento, a cui affidiamo i nostri cari quando abbiamo bisogno del loro aiuto, oltre alle persone che accudiscono gli anziani, dovrebbero vaccinarsi. Anche questo è un aspetto chiave per salvaguardare le categorie più deboli. Ricordo che in farmacia è possibile vaccinarsi contro il Covid-19 e nello stesso momento anche contro l’influenza stagionale”, oltre naturalmente alle iniziative oggi attivate in varie Regioni di chiamata attiva e open day vaccinali.

La farmacia è anche il luogo al quale si rivolge un cittadino che sospetta di essere infetto, a causa di sintomi o per il contatto con una persona risultata positiva. “Ancora oggi – evidenzia Mandelli – è importante ricordare i rischi che il fai-da-te nella diagnosi di Covid-19 comporta, oggi ancor di più rispetto a prima: in farmacia registriamo una diminuzione dei tamponi eseguiti, a favore dell’acquisto dei prodotti casalinghi. Teniamo presente che in farmacia è ancora oggi largamente possibile eseguire i test rapidi che hanno ancora una loro attendibilità anche rispetto alle nuove varianti, se svolti nella maniera corretta, come il farmacista è in grado di fare. E poi, ovviamente c’è la possibilità di prelevare il reperto biologico da mandare in un laboratorio per il test molecolare. Io penso che l’auto-test sia un pericolo in agguato. Primo, perché credo sia umano tendere a fare un esame non nella maniera adeguata: il tampone è fastidioso. L’abbiamo fatto tutti una volta nella vita e sappiamo quanto disagio porta e quindi magari a livello domiciliare, non si esegue alla perfezione. Ovviamente in farmacia magari si soffre, ma si stringono i denti. Eseguire un tampone a casa in maniera non corretta, vedere un risultato negativo quando invece magari si è positivi, creerà problemi a noi e alle persone con cui veniamo in contatto”.

I test antigenici rapidi sono stati sviluppati per offrire risultati più rapidi con minor costo. Analogamente ai test molecolari i saggi antigenici sono di tipo diretto, ossia valutano direttamente la presenza del virus nel campione clinico, a differenza dei test sierologici che sono di tipo indiretto, cioè rilevano la presenza di anticorpi specifici che indicano una infezione pregressa o in atto. A differenza dei test molecolari, però, i test antigenici rilevano la presenza del virus non attraverso il suo acido nucleico, ma tramite le sue proteine (antigeni). Questi test contengono come substrato anticorpi specifici in grado di legarsi agli antigeni virali di SARS-CoV-2 ed il risultato della reazione antigene-anticorpo può essere direttamente visibile a occhio nudo o letto mediante una semplice apparecchiatura al “point of care” (POC) senza la necessità di essere effettuato in un laboratorio. I test antigenici sono di tipo qualitativo (sì/no) e intercettano, tramite anticorpi policlonali o monoclonali, specifici peptidi (porzioni proteiche) della proteina S (Spike) o N (nucleocapside) presenti sulla superficie virale di SARS-CoV-2. Si deve ricordare che il test può risultare negativo se la concentrazione degli antigeni è inferiore al limite di rilevamento del test (per esempio se il prelievo è stato eseguito troppo precocemente rispetto all’ipotetico momento di esposizione) o se il campione è stato prelevato, trasportato o conservato impropriamente. Per questo, i produttori di questi kit evidenziano che un risultato negativo del test non esclude la possibilità di un’infezione da SARS-CoV-2 e la negatività del campione, a fronte di forte sospetto di COVID-19, dovrebbe essere confermata mediante test molecolare. I test molecolari sembrano avere una maggiore sensibilità prima della comparsa dei sintomi, mentre nella fase iniziale immediatamente successiva all’inizio dell’infezione i test rapidi antigenici e quelli molecolari hanno una sensibilità sovrapponibile, rendendo utile l’uso anche dei primi. Inoltre, il test rapido antigenico può essere utilizzato per l’identificazione dei contatti asintomatici dei casi, anche se questo tipo di test non è specificamente autorizzato per questa destinazione d’uso, poiché è stato dimostrato che i casi asintomatici hanno cariche virali simili ai casi sintomatici.

La positività arriva quindi spesso quando si è in farmacia. E il farmacista supporta il paziente nell’intraprendere i giusti comportamenti. “Ovviamente – ricorda Mandelli – non si hanno più quei obblighi stringenti a cui siamo stati abituati nella prima drammatica fase della pandemia. Si indossa la mascherina, e si adottano comportamenti dettati dal buon senso: anche nel caso in cui si fosse asintomatici, raccomandare la massima prudenza è un fatto di convivenza civile”. Quello che il farmacista può e deve fare è chiedere al paziente “innanzitutto l’età, dato che gli ‘over 65’ rientrano nelle categorie più fragili, come i pazienti con malattie croniche o tumorali, ed eventualmente, indirizzare questi pazienti al medico di famiglia, che potrà prescrivere la terapia più adatta al singolo caso. Questo è il gioco di squadra che sul territorio si attiva – prosegue Mandelli – è evidente che il farmacista, quando intercetta un positivo, ha la possibilità di indirizzarlo verso il medico di medicina generale affinché con la diagnosi di positività si possa agire di conseguenza, mettendo il paziente in una situazione di sicurezza. Questa collaborazione sul territorio per potenziare la prossimità viene naturale al farmacista, cosa ancora più importante in questa fase ibrida creata dal fatto che più o meno siamo tutti venuti in contatto col virus, e quindi l’abitudine ci spinge dal fai da te: ricordiamo sempre a tutti i pazienti che è necessario rivolgersi sempre al medico per avere la cura più idonea, più adeguata alla propria situazione di salute”.

Ecco quindi che il paziente positivo, soprattutto se con un’età superiore ai 65 anni e con altre patologie concomitanti, si reca dal medico di famiglia, che prescriverà la terapia più adeguata. E poi si torna in farmacia. “C’è un ulteriore ruolo che può avere il farmacista – spiega il presidente della Fofi – che è quello non solo di dispensare i farmaci, ma anche di seguire il paziente monitorando il dosaggio e l’aderenza terapeutica. Essa è la prima risposta reale del paziente alla possibilità di guarire, cioè essere ligi a quello che è il dettato del medico. E’ la via maestra per poter uscire dalla malattia e poi tornare alla vita sociale. E in questo il farmacista è un alleato prezioso”. E lo è anche nel caso in cui il paziente si trovi di fronte a sintomi che permangono anche settimane, mesi dopo la negativizzazione.

Il recupero da COVID-19 appare, infatti, molto più complesso del semplice riscontro negativo al test diagnostico per SARS-CoV-2. Dal 50% all’80% dei pazienti lamenta sintomi persistenti addirittura a distanza di mesi dall’eliminazione del virus confermata in laboratorio, che frequentemente includono affaticamento, mal di testa, mancanza di respiro, anosmia e debolezza muscolare. Tuttavia, la maggior parte dei dati si riferisce alla popolazione generale, mentre ancora limitati sono i dati relativi alle persone anziane (https://www.jamda.com/article/S1525-8610(21)00641-1/fulltext.)

Secondo la più recente definizione del National Institute for health and Care Excellence (NICE), esistono diverse entità determinate dall’infezione da SARS-CoV-2: COVID-19 acuto, definito da segni e sintomi fino a 4 settimane dall’inizio dell’infezione; Long Covid, definito da sintomi che continuano o si sviluppano dopo l’infezione acuta da COVID-19 e che non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa. Questo termine include COVID-19 sintomatico in corso (OSC), da 4 a 12 settimane dopo l’infezione, e la sindrome post-COVID -19 (PCS), oltre le 12 settimane dall’infezione. Al contrario, il National Institutes of Health (NIH) utilizza la definizione dei CDC di Long Covid, per descrivere le sequele che si estendono oltre le 4 settimane dall’infezione iniziale (https://www.bmj.com/content/374/bmj.n1648.long.)

Questi effetti a lungo termine, il cui rischio pare correlato all’età dei soggetti, sembrano manifestarsi indipendentemente dalla gravità iniziale dell’infezione e sono spesso collegati a più sistemi di organi. Uno studio ha rilevato che fino al 70% degli individui a basso rischio di mortalità per COVID-19 presenta una compromissione di uno o più organi (cioè cuore, polmoni, reni, fegato, pancreas o milza) quattro mesi dopo i sintomi iniziali di COVID-19 (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00703-9/fulltext. L’identificazione delle persone a più alto rischio di sviluppare sintomi persistenti correlati al COVID-19 è difficoltosa: l’età avanzata, il sesso femminile, il peso corporeo eccessivo, la presenza di più di 5 sintomi durante la prima settimana della fase acuta di COVID-19 sono forti indicatori prognostici della persistenza dei sintomi. In un ampio studio di coorte, la gravità di COVID-19 acuto è risultata essere il principale fattore di rischio per i sintomi persistenti correlati a COVID-19. (https://www.jamda.com/article/S1525-8610(21)00641-1/fulltext.). Secondo dati italiani la presenza, negli anziani, di più sintomi durante la fase acuta di COVID-19 è associata a un rischio più elevato di persistenza dei sintomi oltre 2 mesi dopo la dimissione dall’ospedale. In particolare, è la presenza di fatigue al momento della fase acuta di COVID-19 a rappresentare un importante fattore di rischio per la persistenza dei sintomi. Più lungo è il tempo trascorso con COVID-19 in fase acuta, più è probabile che il paziente si riprenda da tutti i sintomi correlati al COVID-19.

Infine, un recentissimo studio dell’Università di Goteborg in Svezia e pubblicato sul British Medical Journal ha rivelato che anche una sola dose di vaccino anti-Covid riduce il rischio di long Covid: senza vaccino il rischio è quattro volte maggiore. Due dosi di vaccino riducono il rischio long-Covid di oltre la metà. I risultati, basati su dati relativi a oltre mezzo milione di adulti svedesi, “sottolineano l’importanza della vaccinazione primaria contro il Covid-19 per ridurre il post-Covid nella popolazione”, affermano gli autori. I ricercatori hanno indagato sull’efficacia della vaccinazione (le prime due dosi e la prima dose di richiamo secondo il programma raccomandato) contro la condizione post-Covid utilizzando dati provenienti dai registri sulla pandemia in Svezia. I loro risultati si basano su 589.722 adulti con una prima infezione registrata tra il 27 dicembre 2020 e il 9 febbraio 2022. Gli individui sono stati seguiti dalla prima infezione fino a una diagnosi di condizione post-Covid, vaccinazione, reinfezione. Il follow-up medio è stato di 129 giorni nella popolazione totale dello studio (vaccinati: 197 giorni, non vaccinati: 112 giorni). Gli individui che avevano ricevuto almeno una dose di vaccino anti-Covid prima dell’infezione sono stati considerati vaccinati. Dei 299.692 individui vaccinati, 1.201 (0,4%) sono stati diagnosticati con condizione post-Covid, rispetto a 4.118 (1,4%) degli individui (290.030) non vaccinati. E l’efficacia del vaccino aumentava con ogni dose successiva prima dell’infezione (un effetto dose-risposta). Ad esempio, la prima dose riduceva il rischio di long Covid del 21%, due dosi del 59%, e tre o più dosi del 73%.

 

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